Visita alla Collezione Permanente del Museo delle Culture

Cultura metropolitana
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Siamo stati al Mudec, Museo delle Culture per visitare la Collezione Permanente e abbiamo potuto ammirare l’incredibile varietà degli oggetti in mostra: animali esotici, suppellettili, vasellame, armi, abiti, maschere rituali, statue,  restaurati e messi gratuitamente a disposizione del pubblico. Ci hanno colpito in modo particolare: la portantina giapponese, l’automa, certe maschere rituali africane, certi tessuti dalle trame coloratissime, ma tutti gli oggetti esposti sono interessanti e offrono la possibilità di entrare in contatto con le culture di altri popoli e di altre epoche, dal Medio all’Estremo Oriente, dall’Africa, all’America centro-eridionale, all’Oceania.
Prima di iniziare il nostro percorso attraverso le sale dell’esposizione, abbiamo chiesto al dott. Eugenio Petz, coordinatore amministrati vo e gestionale del museo. di illustrarci gli aspetti che caratterizzano il Museo delle Culture e, in particolare, la collezione permanente. Ci scusiamo per la qualità difettosa della registrazione audio, dovuta a un contrattempo che ci ha costretto a ricorrere a mezzi di fortuna; per rimediare, ne proponiamo di seguito la trascrizione.

Ecco la trascrizione quasi integrale dell’intervista. Abbiamo evidenziato in blu le domande e i nostri interventi all’interno delle risposte. Le parole mancanti, perché incomprensibili nella registrazione, sono indicate da […].

Mi pare che l’esposizione sia gratuita. Lo è per sempre o solo per un periodo?

L’esposizione è gratuita in forza di una decisione dell’Assessore che ha disposto la gratuità fin da subito e che di anno in anno viene rinnovata. Per il 2017 sarà gratuita.

Ci può presentare brevemente queste collezioni?

Il Museo delle Culture, MUDEC, nasce per presentare al pubblico e rivitalizzare le collezioni che il Comune di Milano possiede da tempo immemore, riguardanti le culture extraeuropee. Sono collezioni che si sono via via sedimentate le une sulle altre per effetto soprattutto dello spirito dei collezionisti privati che le hanno raccolte per sé e che poi le hanno cedute alla collettività in una sorta di mecenatismo illuminato con forte vocazione democratica.
Questo tipo di collezionismo si è sviluppato dalla fine dell’800 fino ai giorni nostri, e continuiamo a ricevere dei comodati, cioè delle cessioni per un periodo molto lungo delle collezioni private alla pubblica fruizione. Queste collezioni erano state nascoste alla cittadinanza per effetto dei bombardamenti subiti da Milano nel 1943, che hanno distrutto l’area del Castello in cui erano ospitate e poi avevano avuto bisogno di essere mantenute nei depositi per essere sottoposte a cospicui restauri. Noi qui le esponiamo tutte in due modalità, che sono la collezione permanente nelle sale deputate a questo scopo e poi nei depositi che, in via per cosi dire anomala per il resto dei musei civici, sono visitabili. Nei depositi sono messe a scaffale e la visita richiede di essere condotta da una guida che spiega a chi è presente, non con la sola modalità della didascalia, ed è anche più coinvolgente.

Anche la visita ai depositi è gratuita?

Sì, però va prenotata perché l’accesso è consentito per ragioni di sicurezza e di conservazione soltanto a gruppi limitati e accompagnati.
Le collezioni spaziano sopra le aree culturali dell’Africa, del Medio Oriente islamico, Cina e Giappone, Sud America e, un’ultima acquisizione recentissima, anche Nuova Guinea, Papua, insomma Oceania. Sono collezioni estremamente interessanti, non tanto e non soltanto per il valore intrinseco artistico dei manufatti, ma perché ogni manufatto che noi presentiamo evoca una storia, un ambiente, evoca una civiltà, una cultura, e nostra ambizione sarebbe utilizzare questi oggetti per raccontare ciò che hanno alle spalle, come ponte per un ingresso alla conoscenza più articolata del loro ambiente di origine, della cultura dell’umanità che sta al di là…
Poi certamente è molto interessante la chiave di approccio consistente nello studio, nell’esplorazione delle modalità con cui l’Occidente è entrato in contatto con queste popolazioni, perché anche questo è una larga parte del significato che si è stratificato sugli oggetti, e forse la parte più importante, alla luce delle tematiche e delle problematiche che abbiamo oggi con la globalizzazione e con l’integrazione delle culture.
Da questo punto di vista le condizioni sono fondamentali per la mission di questo museo che è stato pensato fin dall’origine, dall’Assessore Boeri e poi dalla Giunta e poi dall’Assessore Del Corno in questa Consigliatura, come quella sede che è deputata a offrire la possibilità di autoproduzione e autopresentazione e di interazione feconda, anche conflittuale se necessario, tra la cultura della popolazione residente, tipicamente milanese, e questi gruppi, queste famiglie, queste persone che [sono] a Milano da lungo tempo, provenienti da ambienti e luoghi diversi, che ci hanno arricchito e che continuano ad arricchirci, perché sono integrate nel tessuto economico, producono interessi culturali e sviluppano quella condizione umana molto contemporanea e estremamente affascinante e interessante che è l’essere […] di due mondi ed essere quindi un pochino sradicati e radicati da nessuna parte […]
– che è la condizione degli immigrati di seconda generazione
[.. ] sono vicende affascinanti, tutte da esplorare, in qualche modo.
Il museo avrebbe appunto il compito di stabilire questi ponti, questi dialoghi, aprire queste porte. Lo facciamo con i mezzi che abbiamo a disposizione, ovviamente non elevatissimi perché sapete che le condizioni delle finanze pubbliche e in particolare di quelle locali non sono in questo momento floridissime, però facciamo tutto il possibile
– che è quello che importa, fornire comunque un servizio
sì.

In particolare nelle collezioni lei ci saprebbe indicare qualcosa di particolarmente significativo?

Tutto è significativo perché potrei illustrarvi il caso di due ciotole di una ceramica apparentemente grezza e insignificante che sono custodite nei depositi […] insieme ad altre ciotole acquisite da un collezionista privato, ciotole di provenienza giapponese. Queste due ciotole sono arrivate al museo perché non hanno trovato nessun acquirente in un asta di pochi anni fa. In realtà sono ciotole di ceramica Raku e rappresentano il modello più fedele del tipo di ciotole che per l’estetica e per la concezione etica che il Giappone ha costruito intorno alla cerimonia del tè erano le più idonee, le più adatte spiritualmente, per cui, cose apparentemente insignificanti, che non colpiscono l’occhio lì per lì, quando vengono spiegate svelano tutto un ventaglio di circostanze fantastiche.
Molto suggestiva per esempio è la portantina di epoca Edo, 1800, proviene dal Giappone, una portantina estremamente aristocratica, molto bella, femminile, a sollevamento, cioè veniva portata da quattro uomini che sostenevano davanti e dietro l’asta a cui è sospesa ed è estremamente preziosa perché è un esempio della tecnica sopraffina che avevano gli artigiani giapponesi di ricoprire con lacche, comunque manufatti in legno già estremamente raffinati […]
– a incastro, senza chiodi…
Noi l’abbiamo saputa restaurare molto bene soprattutto sul lato dei tessuti perché erano deteriorati e abbiamo ripreso questi broccati, queste sete con un’attenzione maniacale. Nelle lacche invece in realtà l’Occidente non è bravissimo a restaurarle; infatti il restauro delle lacche è molto difficile perché […] la lacca non è restaurabile e il canone di restauro italiano vorrebbe che ogni sutura, ogni recupero fosse reversibile e quindi non fatto del materiale originale, mentre i giapponesi restaurano la lacca cercando la più vicina possibile all’originale e ci riescono in modo perfetto, simile a quello originale. Quindi insomma sulle lacche dobbiamo fare ancora dei progressi, comunque l’abbiamo fatto molto brllo e colpisce perché di per sé è proprio […]

Ma il restauro viene fatto qui, in un vostro laboratorio, o all’esterno?

Qui abbiamo un laboratorio di restauro che stiamo attrezzando, ma non è ancora attivo. Questa portantina è stata messa in mano a degli eccellenti restauratori che abbiamo in Italia sul versante dei tessuti e anche delle lacche, nonché della costruzione, delle colle, l’assemblaggio e così via..

E senta, venendo su ho notato un automa, una testa con una scatola sotto… ecco ce ne può dire qualcosa? Perché l’avevo visto al Castello ed ero molto interessato.

Dunque l’Automa è uno dei pezzi più interessanti, anzi forse il pezzo più interessante della cosiddetta collezione Settala. La collezione Settala è quanto sopravvive della raccolta che questo canonico milanese, durante il 1600 aveva raccolto, perché è stata poi dispersa dagli eredi fin da subito, ma che all’epoca rappresentava una vera e propria meraviglia del mondo, tant’è che è stata visitata da illustri intellettuali dell’epoca e da lì la memoria se n’è in qualche modo persa o comunque insomma è rimasta viva in ambiti ristretti; le ultime sopravvivenze erano raccolte nei musei civici e all’Ambrosiana. Abbiamo deciso di raccogliere quello che sopravviveva e ricompattarlo in una sede unica, perché abbiamo intuito in questo fondo antico alcune grandi potenzialità.
Devo dire che è ancora in fase di studio la collezione, stiamo ancora cercando di capire quali sono tutti i riverberi tutti gli echi che se ne possono trarre. Certamente la cosa più preziosa di questa collezione è il fatto che è stata costituita nel ‘600 e contiene oggetti che sono tra loro estremamente eterogenei. Proprio questa differenziazione fa la sua ricchezza. Per farvi un esempio, c’è l’Automa che rappresenta uno dei primi esempi di meccanismo moderno, cioè ispirato a quelle conoscenze che allora si avevano in sede fisica dei congegni ingegneristici e quant’altro, ma ci sono anche oggetti che rappresentano invece ancora una mentalità ispirata dall’idea che il Cosmo fosse un tutto in cui le parti si tengono anche in forza di relazioni non fisiche, bensì in qualche modo, in senso lato, magiche.
Ora, come mai questi oggetti che rappresentano due visuali così diverse fra loro? Perché il ‘600, lo sappiamo, è un secolo critico, fondamentale per la contemporaneità, perché lì nasce il sapere moderno, il sapere fisico di Newton e Galileo, tramontano altri saperi, sopravvivono anche altri saperi, tramonta il sapere aristotelico, ma per esempio la medicina continua a fiorire su basi precedenti che sono quelle di un sapere che cerca di comprendere il mondo come se fosse un tutto interconnesso e il buon Settala raccoglieva questi oggetti che per lui rappresentavano altrettanti enigmi della conoscenza. Qundi c’era quest’ansia di voler capire, di voler sapere, ma anche questa estrema frammentazione dei paradigmi in gioco e lui è lì che osserva, valuta, li sperimenta tutti perché suo padre era un illustre medico, protofisico, tra l’altro incensato nei Promessi Sposi di Manzoni, in realtà il padre era stato protagonista di un processo a una donna milanese accusata di stregoneria, ha sostenuto l’accusa. Ora il figlio è questa sorta di strano intellettuale che è incuriosito da tutto, che conosce bene questi saperi e li sperimenta, li mette in gioco uno contro l’altro, anche se onestamente non ha portato grossi contributi in proprio allo sviluppo di questi saperi, anche perché era dotato di uno spirito molto concreto, aveva una grande capacità manuale e si era dotato di un laboratorio di altissimo, raffinato artigianato, con cui lui faceva cose, per esempio costruiva macchine del moto perpetuo. La macchina del moto perpetuo era […] l’idea che grazie all’interconnessione, quindi non fisica, del mondo, fosse possibile, disponibile una fonte di energia perenne, autorinnovabile. Questo limite è arrivato soltanto nell’800, con la termodinamica, l’entropia […] non è possibile.
Lui faceva queste cose, congegni particolari, dunque cos’era? Era un contemporaneo come noi alle prese con degli enigmi e con una panoplia di saperi diversi, anche in conflitto fra loro, e se li gestiva con atteggiamento molto pratico, pragmatico se vogliamo, ma illuminato, cioè aperto alle visioni del nuovo. Questo fa di lui un precursore in qualche modo della nostra posizione: noi di fronte alle civiltà che non conosciamo abbiamo questo atteggiamento, potremmo o chiuderci oppure aprirci [….]. Quindi, con una certa cautela, mi spingo a dire che vediamo nel Settala una sorta di precursore in casa nostra, un rappresentante di una mentalità milanese così […] aperta.

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